sabato 12 gennaio 2013

Taranto e il sistema Ilva. intervista a Roberto Nistri

ACCIAIERIA

Taranto e il sistema Ilva

Lo storico Nistri spiega come la città è stata ridotta a un orinale.

di Antonietta Demurtas

Articolo tratto da: Lettera43

giovedì 10 gennaio 2013

Sovversivi di Taranto. Colophon

Colophone del libro "Sovversivi di Taranto" di Roberto Nistri e Francesco Voccoli




Taranto e le leggi razziali. Un saggio di Francesco Terzulli


TARANTO E LE LEGGI RAZZIALI. UN SAGGIO DI FRANCESCO TERZULLI
Roberto Nistri

1. “Storia Patria”: lo stato dell’arte

           Il giornalista Sandro Viola , su “la Repubblica” del 29 settembre 1985, scrisse un articolo di rilevanza storica per tutto il dibattito culturale in terra jonica sul finire del ‘900: Un salto nell’Italsider, così Taranto si è uccisa. L’industrializzazione sbagliata della più sporca città italiana. “L’assedio del brutto ha vinto, non ci sono teatri né biblioteche, i legami con il passato sono perduti. E’ come se fossimo passati direttamente dalla Magna Grecia al Siderurgico… In mezzo non è rimasto niente”: giudizi che scatenarono una discussione più che vivace su questioni di dettaglio e forzature polemiche dello scrittore di origini tarantine, senza tematizzare la questione di fondo: per primo Viola aveva intonato il de profundis per il Grande Sogno siderurgico e gli eventi successivi hanno di gran lunga superato le sue più fosche previsioni. Viola aveva indicato anche alcuni motivi di ottimismo, fra i quali l’affermarsi di un lavoro storiografico attento alle problematiche dell’industrializzazione, considerato con una certa attenzione anche dalle istituzioni locali e addirittura dall’Italsider, nel quadro della perdurante assenza di un polo universitario (1). In effetti, due grandi opere pubblicate nei primi anni ’80 - La città al borgo e Taranto da una guerra all’altra - furono occasione per un (sia pure superficiale) risanamento della Galleria degli Uffici, con l’allestimento di grandi mostre fotografiche e pregevoli concerti-spettacoli rievocativi della storia municipale.
            A seguito del lavoro storico sugli antifascisti tarantini e, in particolare, sulla figura di Pietro Pandiani, comandante partigiano della brigata “Giustizia e libertà”, si giunse ad una delibera municipale del 31 ottobre 1988 (sindaco Mario Guadagnolo) che affidava “formale incarico - privo di ogni compenso - ai Proff. Matteo Pizzigallo, Roberto Nistri, Piero Massafra nostri concittadini, perché affrontino in dettaglio tutti gli aspetti connessi alla costituzione di un Istituto della Ricerca Storica sulla Resistenza e la Costituzione, riservando a successivi atti di questa Amministrazione la concreta attuazione dell’iniziativa” (2). Il progetto presentato venne approvato all’unanimità, ma la “concreta attuazione” non prese mai il via. Tamquam non fuisset… Intanto progrediva il depauperamento del patrimonio archivistico e documentario cittadino: prima la smobilitazione della prestigiosa Scuola Quadri della Cisl, poi la chiusura della Biblioteca dell’Italsider, a seguire la lenta ma implacabile morìa dei Centri Servizi Culturali della Regione Puglia (3).
           Naturalmente gli storici locali hanno continuato a livello individuale il loro lavoro: ancora non si deve chiedere il permesso a nessuno per scrivere di storia moderna e contemporanea ed egregie opere hanno visto la luce grazie all’interessamento di case editrici tarantine e pugliesi: Mandese, Scorpione, Schena, Archita, Filo… Un ruolo meritorio va riconosciuto, in questo campo, ad alcune importanti riviste scolastiche, in particolare “Galaesus” del liceo Archita e “l’arengo” del liceo Quinto Ennio. Per quanto riguarda il gioco di squadra, positivamente va considerata, grazie alla collaborazione dei fratelli Mandese con la Sezione tarantina della Società di Storia Patria, la ripresa nel 1990 della pubblicazione di “Cenacolo”, prestigiosa rivista fondata nel 1971 ma entrata in sonno nel 1982 (4).
            A livello istituzionale, si deve ricordare l’exploit del 1999: in occasione del bicentenario della Repubblica partenopea fiorirono mostre e pubblicazioni: un eccellente catalogo curato dall’Archivio di Stato, un Quaderno del Centro Studi Piero Calamandrei e un qualificatissimo convegno di studiosi locali e nazionali i cui atti vennero pubblicati a cura del Provveditorato agli Studi di Taranto. Si può considerare un evento eccezionale nella storia del Provveditorato e, considerato l’ampio coinvolgimento delle scuole, rimane la più importante operazione culturale degli ultimi tre decenni. Promotore e impeccabile organizzatore dell’iniziativa fu il preside Franco Terzulli (5). Di formazione filosofica (ha pubblicato una ricerca bibliografica relativa al Nietzsche di Heidegger in collaborazione con il prof. Gianni Vattimo e il Goethe Institut di Torino) in seguito si è sempre più appassionato alle questioni di storiografia pugliese.

2. Francesco Terzulli e la questione ebraica

            Collaborando con Terzulli nelle celebrazioni della “repubblica della memoria”, mi sono ritrovato a condividere con lui un paradigma forte della storiografia contemporanea e un criterio di valutazione delle tormentate vicende della vita civile italiana e meridionale: nella Storia del regno di Napoli Croce ha scritto che, nel ripensare all’opera dei patrioti del ’99, egli si sentiva spinto a dirsi “ecco la nascita dell’Italia moderna, della nuova Italia, dell’Italia nostra”. L’origine dell’Italia unitaria è nell’Illuminismo (6). Sullo sfondo di quel tumultuoso processo è ben presente una questione che costituisce il filo rosso di larga parte della riflessione storiografica di Terzulli: gli ebrei e i diritti di cittadinanza, gli ebrei e l’illuminismo. Con l’arrivo dei francesi a Roma, nel febbraio del 1798, vennero spalancate le porte del ghetto in nome della libertà giacobina. Nel mese di novembre l’esercito borbonico di Ferdinando IV invase Roma e richiuse il Ghetto. Un mese dopo tornarono i giacobini e con la Repubblica il Ghetto venne riaperto, ma richiuso con il ritorno dei Borbone il 3 ottobre 1799. Durante il quinquennio “imperiale” vi fu nuova libertà per il Ghetto, con un fiorire dei mestieri e dei commerci. Passati i “cento giorni” di Napoleone, la clausura per gli 8000 ebrei che vivevano nel Ghetto romano  fu definitiva. Tale altalena fra persecuzione e liberazione ebbe naturalmente a riprodursi in tutta Italia, cristallizzando la coniugazione fra antisemitismo e anti-illuminismo (7).
           Franco Terzulli, punta di diamante della resistente pattuglia di storiografi tarantini, ha continuato nei decenni a lavorare su queste ed altre tematiche senza mai cedere alla tentazione dello scoop e della pubblicistica usa e getta: troppo grande, quasi religioso, è il suo rispetto per la materia da lui indagata con l’autorità dei fatti e la moralità del lavoro accurato. Nei riguardi di questo storico di razza, ubbidiente all’aurea regola di Vico che vuole la storiografia come congiunzione fra filologia e filosofia (i fatti senza l’interpretazione sono ciechi, l’interpretazione senza la ricognizione fattuale è solo retorica), attento nello scrivere e nel comunicare con chiarezza e distinzione, secondo lo stile sobrio e “scientifico” appreso dal maestro Primo Levi, ci sembra a lui calzante una citazione del vecchio Marx: “La critica non è una passione del cervello, bensì il cervello della passione”. Avverso alla storia romanzata, ben pubblicizzata e ben venduta, Terzulli teme la intollerabile “scomparsa dei fatti” e, con Vittorio Foa, è convinto che l’oblio si possa vincere solo se la memoria dell’evento è riportata alla ragione che lo ha determinato. Questa divisa critica è la cifra di ogni sua indagine, si tratti della scuola  o di vicende militari (8).

3. Quando l’Italia diventò razzista per legge: l’antisemitismo in una città senza ebrei

           Nel settantesimo compleanno delle leggi razziali, Francesco Terzulli ha voluto indagare nel microcosmo della vita quotidiana di Taranto, nel tempo intercorso tra la proclamazione dell’Impero Fascista e l’armistizio che ne decretò la fine, sempre onorando la storia come “guerra illustre” contro la menzogna (“Taranto razzista? Quando mai…”) e sempre usando le armi della filologia senza le quali la storiografia si riduce a chiacchiera. Sette anni di ricerche ci son voluti per “blindare” doverosamente la sua indagine su L’impossibile emulsione. Una città al tempo delle leggi razziali , un testo di storia municipale potentemente attraversata da tutta la tragicità della storia maior, non imbrigliato dal provinciale “effetto tunnel” che tende a focalizzare l’attenzione su alcuni elementi precostituiti dalla “tradizione” (9). Nel testo del Manifesto sulla purezza della razza si leggeva: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana… E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”. Dichiarazioni che oggi ci appaiono infami e oltraggiose nell’Italia fascista vennero accolte con entusiasmo, in particolare dal mondo accademico e dalla cultura: ad esempio, nelle Università, l’espulsione dei docenti ebrei fu salutata con giubilo dai colleghi, felici che alcune cattedre si rendessero disponibili. Anche a Taranto i Giovani Universitari Fascisti, molti presidi, intellettuali e uomini di fede, ovvero le migliori intelligenze del territorio, si misero al servizio dell’ideologia e della politica razzista attuata dal governo centrale.
           Giustamente Terzulli considera la politica razziale non come un bizzarro accidente o concessione di Realpolitik al più potente alleato (10), ma come essenza stessa del fascismo, ideologia di Stato e  principale collante della cultura nuova. Dopo la conquista dell’Etiopia nel ’36, il regime entrava nella nuova fase del Fascismo Imperiale che richiedeva una vera e propria rivoluzione antropologica. Proprio in Africa veniva elaborata una teoria razzista molto forte, a partire dall’idea che le unioni miste fra soldati italiani e donne indigene potessero inquinare il ceppo italiota. Di fatto venne introdotto l’apartheid  con molto anticipo  rispetto al Sudafrica e la discriminazione si esercitò prima nei confronti dei “negri”, poi dei meticci e infine degli ebrei. Il paradigma era quello della “emulsione impossibile”, da cui il titolo del saggio di Terzulli: l’olio delle altre razze non può miscelarsi con l’acqua pura della stirpe italica e, derivandone un composto torbido, è necessario un processo elettrolitico per attuare una separazione definitiva. Si avviava così un processo di “disebraizzazione” volto a cancellare qualunque traccia degli ebrei dal territorio italiano. In Puglia i provvedimenti potevano colpire una donna ebrea di nazionalità greca, licenziata da una banca di Bari come un ufficiale dell’esercito di Lecce, fascista e decorato al valor militare, espulso dalle forze armate in quanto ebreo.
           Anche nella provincia jonica zelo antiebraico e ortodossia fascista finirono per coincidere, avvolgendo in un’unica nuvola ideologica l’intellighenzia cittadina. A discapito della ridottissima presenza ebraica e con eventuale risparmio di senso di colpa (secondo il censimento del ’38 gli ebrei di Taranto erano solo 26) la campagna persecutoria, facile e redditizia, fu sviluppata a tutti i livelli, a partire dal più importante periodico locale, “La Voce del Popolo”: “Gli Ebrei non possono appartenere alla razza italiana” (Antonio Trotta, 20 agosto 1938); “L’Italia, più di ogni altra, sente la necessità essenziale di sradicare questa funesta piaga” (Gennaro Capano, 10 settembre). La “guerra santa” - un tonico a poco prezzo per il bolso fascismo locale e un allettante viatico per l’autopromozione delle nuove leve - fu condotta anche dal celebre liceo classico “Archita” sotto la guida del fascistissimo preside Luca Claudio: fra i “Quaderni” di propaganda fascista spiccava anche un opuscolo antisemita, Concetto scientifico di razza, stampato nel 1940 dalla Tipografia Arcivescovile di Taranto, all’interno del quale si può leggere:”La razza va difesa. Noi non vogliamo bastardi”. Come scrive Terzulli, Taranto rappresentò una “cartolina del Regime” con l’integrale sviluppo di quei temi in agenda: qui, infatti, fu avvertito l’ “orgoglio imperiale” di una città militarizzata, statale per antonomasia, “porosa” e permeabile a ogni modello di sviluppo eterodiretto, divenuta avamposto sui mari e vetrina della flotta, a partire dalla proclamazione dell’Impero. La propaganda antisemita,  un’alchimia tossica di vaghi pregiudizi e reiterate istigazioni all’odio, con una facile mobilitazione di improvvisati specialisti in razzismo ( storici, archeologi e folkloristi pontificanti nella Lega Navale o nella Società “Dante Alighieri”) era anche una occasione insperata per restituire credibilità a un Fascio locale sempre rissoso e spesso commissariato. L’antisemitismo si rivelò subito “un mito aggregatore di tutto quello che il fascismo condannava” con conseguente razzizzazione del nemico politico (antifascista).
            Allontanati dalla città i pochi ebrei e scomparso, grazie al piccone del Duce nel ’34, l’ultimo toponimo del vicoletto Giuda, non rimaneva che dichiarare guerra alla storia, disebreizzando anche il passato con una rivisitazione retroattiva e malevola dell’antica presenza dei giudei in terra jonica (11). Del resto la “bonifica” doveva esercitarsi in particolare contro l’ebreo “invisibile”,  il “circonciso dentro”, quella ebraicità nascosta che alligna come parassita nel corpo sano della Nazione. Non si trattava comunque di un’adesione artificiosa: nello zelo scolastico “c’era qualcosa di volontario, di spontaneo, un’adesione intima e non indotta dall’esterno di alcuni dirigenti e docenti” e una sorta di invasamento era riscontrabile anche fra gli universitari in camicia nera, quei “gufini” che a Taranto potevano coniugare il loro antiebraismo con la doppia appartenenza alla Fuci, la federazione degli universitari cattolici, anche per una certa ambiguità caratterizzante le posizioni della Chiesa locale. I giovani intellettuali jonici mostravano di conoscere le diverse teorie razziste in circolazione, privilegiando come nuova antropologia di regime la “scuola” di Nicola Pende, clinico medico di Noicattaro, nominato nel 1937 presidente della sezione di eugenica del Comitato medico del Cnr e firmatario del Manifesto della razza (12).
           Il 2 dicembre 1938 il federale di Taranto chiamò a rapporto tutti i gerarchi per parlare della lotta contro gli ebrei “confermando che dovrà essere combattuta ogni forma di pietismo”. Si diffondeva intanto il pamphlet di Telesio Interlandi Contra Judaeos e il volume curato da Paolo Orano, Inchiesta sulla razza che “divenne il testo di riferimento per tutti i razzisti antiebraici nostrani”. Faceva la sua parte anche l’antigiudaismo di matrice cattolica con il canonico grottagliese don Giuseppe Petraroli, che denunciava la pericolosità di un sionismo messianico di “carattere massonico-ebraico-bolscevico”. Secondo Terzulli è nel saggio  di padre Primaldo Coco, Gli ebrei: popolo errante, che si attua la saldatura tra l’antisemitismo fascista e il tradizionale antigiudaismo cattolico (13). L’ultimo capitolo del libro, dedicato all’istituzione scolastica, è quello in cui maggiormente si dispiega il volume di fuoco della macchina propagandistica, un dispositivo reticolare del coinvolgimento con agenti iperattivi come il dirigente della scuola elementare “Virgilio”, Angelo Iurlaro, e l’ispettrice scolastica Maria Luigia Quintieri. Alla caduta del fascismo nessun operatore scolastico incappò in pesanti sanzioni epurative. Docenti dell’ “Archita” hanno ricordato come, all’indomani dell’Armistizio, ci volle qualche giorno per strappare materialmente le pubblicazioni compromettenti prima che arrivasseo gli inglesi (14).
           Con un libro come questo Franco Terzulli ha piantato il piccolo paletto di cui lo storico dispone per sabotare la fabbrica della dimenticanza organizzata, per arginare la nostra facilità nel rimuovere, glissare, evitare di fare i conti: cinquantamila italiani ebrei consegnati a Hitler, centinaia di migliaia di soldati italiani mandati a morire per i campi di Europa, decine di migliaia di sloveni, etiopi, greci ammazzati in casa loro. Una spia dell’Ovra in ogni caseggiato e oppositori in galera, oppure braccati e uccisi, certamente non mandati “in vacanza” come qualcuno ha dichiarato incautamente. Lo stesso orrore per le foibe, tombe di migliaia di italiani innocenti, produce falsa coscienza se si omette di ricordare che senza il fascismo, l’invasione della Slovenia, le atrocità contro i civili, quella orribile rappresaglia non ci sarebbe mai stata. Gli “italiani brava gente”, invasori con obiettivi dichiarati di supremazia etnica, hanno sempre evitato accuratamente di guardarsi nel fondo dello specchio nero. Per questo il “rimosso” ritorna,  si risveglia quel razzismo che “giace in fondo agli animi come un’infezione latente” (Primo Levi) e tocca allo storico riprendere l’eterno lavoro di Sisifo.