giovedì 10 gennaio 2013

Taranto e le leggi razziali. Un saggio di Francesco Terzulli


TARANTO E LE LEGGI RAZZIALI. UN SAGGIO DI FRANCESCO TERZULLI
Roberto Nistri

1. “Storia Patria”: lo stato dell’arte

           Il giornalista Sandro Viola , su “la Repubblica” del 29 settembre 1985, scrisse un articolo di rilevanza storica per tutto il dibattito culturale in terra jonica sul finire del ‘900: Un salto nell’Italsider, così Taranto si è uccisa. L’industrializzazione sbagliata della più sporca città italiana. “L’assedio del brutto ha vinto, non ci sono teatri né biblioteche, i legami con il passato sono perduti. E’ come se fossimo passati direttamente dalla Magna Grecia al Siderurgico… In mezzo non è rimasto niente”: giudizi che scatenarono una discussione più che vivace su questioni di dettaglio e forzature polemiche dello scrittore di origini tarantine, senza tematizzare la questione di fondo: per primo Viola aveva intonato il de profundis per il Grande Sogno siderurgico e gli eventi successivi hanno di gran lunga superato le sue più fosche previsioni. Viola aveva indicato anche alcuni motivi di ottimismo, fra i quali l’affermarsi di un lavoro storiografico attento alle problematiche dell’industrializzazione, considerato con una certa attenzione anche dalle istituzioni locali e addirittura dall’Italsider, nel quadro della perdurante assenza di un polo universitario (1). In effetti, due grandi opere pubblicate nei primi anni ’80 - La città al borgo e Taranto da una guerra all’altra - furono occasione per un (sia pure superficiale) risanamento della Galleria degli Uffici, con l’allestimento di grandi mostre fotografiche e pregevoli concerti-spettacoli rievocativi della storia municipale.
            A seguito del lavoro storico sugli antifascisti tarantini e, in particolare, sulla figura di Pietro Pandiani, comandante partigiano della brigata “Giustizia e libertà”, si giunse ad una delibera municipale del 31 ottobre 1988 (sindaco Mario Guadagnolo) che affidava “formale incarico - privo di ogni compenso - ai Proff. Matteo Pizzigallo, Roberto Nistri, Piero Massafra nostri concittadini, perché affrontino in dettaglio tutti gli aspetti connessi alla costituzione di un Istituto della Ricerca Storica sulla Resistenza e la Costituzione, riservando a successivi atti di questa Amministrazione la concreta attuazione dell’iniziativa” (2). Il progetto presentato venne approvato all’unanimità, ma la “concreta attuazione” non prese mai il via. Tamquam non fuisset… Intanto progrediva il depauperamento del patrimonio archivistico e documentario cittadino: prima la smobilitazione della prestigiosa Scuola Quadri della Cisl, poi la chiusura della Biblioteca dell’Italsider, a seguire la lenta ma implacabile morìa dei Centri Servizi Culturali della Regione Puglia (3).
           Naturalmente gli storici locali hanno continuato a livello individuale il loro lavoro: ancora non si deve chiedere il permesso a nessuno per scrivere di storia moderna e contemporanea ed egregie opere hanno visto la luce grazie all’interessamento di case editrici tarantine e pugliesi: Mandese, Scorpione, Schena, Archita, Filo… Un ruolo meritorio va riconosciuto, in questo campo, ad alcune importanti riviste scolastiche, in particolare “Galaesus” del liceo Archita e “l’arengo” del liceo Quinto Ennio. Per quanto riguarda il gioco di squadra, positivamente va considerata, grazie alla collaborazione dei fratelli Mandese con la Sezione tarantina della Società di Storia Patria, la ripresa nel 1990 della pubblicazione di “Cenacolo”, prestigiosa rivista fondata nel 1971 ma entrata in sonno nel 1982 (4).
            A livello istituzionale, si deve ricordare l’exploit del 1999: in occasione del bicentenario della Repubblica partenopea fiorirono mostre e pubblicazioni: un eccellente catalogo curato dall’Archivio di Stato, un Quaderno del Centro Studi Piero Calamandrei e un qualificatissimo convegno di studiosi locali e nazionali i cui atti vennero pubblicati a cura del Provveditorato agli Studi di Taranto. Si può considerare un evento eccezionale nella storia del Provveditorato e, considerato l’ampio coinvolgimento delle scuole, rimane la più importante operazione culturale degli ultimi tre decenni. Promotore e impeccabile organizzatore dell’iniziativa fu il preside Franco Terzulli (5). Di formazione filosofica (ha pubblicato una ricerca bibliografica relativa al Nietzsche di Heidegger in collaborazione con il prof. Gianni Vattimo e il Goethe Institut di Torino) in seguito si è sempre più appassionato alle questioni di storiografia pugliese.

2. Francesco Terzulli e la questione ebraica

            Collaborando con Terzulli nelle celebrazioni della “repubblica della memoria”, mi sono ritrovato a condividere con lui un paradigma forte della storiografia contemporanea e un criterio di valutazione delle tormentate vicende della vita civile italiana e meridionale: nella Storia del regno di Napoli Croce ha scritto che, nel ripensare all’opera dei patrioti del ’99, egli si sentiva spinto a dirsi “ecco la nascita dell’Italia moderna, della nuova Italia, dell’Italia nostra”. L’origine dell’Italia unitaria è nell’Illuminismo (6). Sullo sfondo di quel tumultuoso processo è ben presente una questione che costituisce il filo rosso di larga parte della riflessione storiografica di Terzulli: gli ebrei e i diritti di cittadinanza, gli ebrei e l’illuminismo. Con l’arrivo dei francesi a Roma, nel febbraio del 1798, vennero spalancate le porte del ghetto in nome della libertà giacobina. Nel mese di novembre l’esercito borbonico di Ferdinando IV invase Roma e richiuse il Ghetto. Un mese dopo tornarono i giacobini e con la Repubblica il Ghetto venne riaperto, ma richiuso con il ritorno dei Borbone il 3 ottobre 1799. Durante il quinquennio “imperiale” vi fu nuova libertà per il Ghetto, con un fiorire dei mestieri e dei commerci. Passati i “cento giorni” di Napoleone, la clausura per gli 8000 ebrei che vivevano nel Ghetto romano  fu definitiva. Tale altalena fra persecuzione e liberazione ebbe naturalmente a riprodursi in tutta Italia, cristallizzando la coniugazione fra antisemitismo e anti-illuminismo (7).
           Franco Terzulli, punta di diamante della resistente pattuglia di storiografi tarantini, ha continuato nei decenni a lavorare su queste ed altre tematiche senza mai cedere alla tentazione dello scoop e della pubblicistica usa e getta: troppo grande, quasi religioso, è il suo rispetto per la materia da lui indagata con l’autorità dei fatti e la moralità del lavoro accurato. Nei riguardi di questo storico di razza, ubbidiente all’aurea regola di Vico che vuole la storiografia come congiunzione fra filologia e filosofia (i fatti senza l’interpretazione sono ciechi, l’interpretazione senza la ricognizione fattuale è solo retorica), attento nello scrivere e nel comunicare con chiarezza e distinzione, secondo lo stile sobrio e “scientifico” appreso dal maestro Primo Levi, ci sembra a lui calzante una citazione del vecchio Marx: “La critica non è una passione del cervello, bensì il cervello della passione”. Avverso alla storia romanzata, ben pubblicizzata e ben venduta, Terzulli teme la intollerabile “scomparsa dei fatti” e, con Vittorio Foa, è convinto che l’oblio si possa vincere solo se la memoria dell’evento è riportata alla ragione che lo ha determinato. Questa divisa critica è la cifra di ogni sua indagine, si tratti della scuola  o di vicende militari (8).

3. Quando l’Italia diventò razzista per legge: l’antisemitismo in una città senza ebrei

           Nel settantesimo compleanno delle leggi razziali, Francesco Terzulli ha voluto indagare nel microcosmo della vita quotidiana di Taranto, nel tempo intercorso tra la proclamazione dell’Impero Fascista e l’armistizio che ne decretò la fine, sempre onorando la storia come “guerra illustre” contro la menzogna (“Taranto razzista? Quando mai…”) e sempre usando le armi della filologia senza le quali la storiografia si riduce a chiacchiera. Sette anni di ricerche ci son voluti per “blindare” doverosamente la sua indagine su L’impossibile emulsione. Una città al tempo delle leggi razziali , un testo di storia municipale potentemente attraversata da tutta la tragicità della storia maior, non imbrigliato dal provinciale “effetto tunnel” che tende a focalizzare l’attenzione su alcuni elementi precostituiti dalla “tradizione” (9). Nel testo del Manifesto sulla purezza della razza si leggeva: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana… E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”. Dichiarazioni che oggi ci appaiono infami e oltraggiose nell’Italia fascista vennero accolte con entusiasmo, in particolare dal mondo accademico e dalla cultura: ad esempio, nelle Università, l’espulsione dei docenti ebrei fu salutata con giubilo dai colleghi, felici che alcune cattedre si rendessero disponibili. Anche a Taranto i Giovani Universitari Fascisti, molti presidi, intellettuali e uomini di fede, ovvero le migliori intelligenze del territorio, si misero al servizio dell’ideologia e della politica razzista attuata dal governo centrale.
           Giustamente Terzulli considera la politica razziale non come un bizzarro accidente o concessione di Realpolitik al più potente alleato (10), ma come essenza stessa del fascismo, ideologia di Stato e  principale collante della cultura nuova. Dopo la conquista dell’Etiopia nel ’36, il regime entrava nella nuova fase del Fascismo Imperiale che richiedeva una vera e propria rivoluzione antropologica. Proprio in Africa veniva elaborata una teoria razzista molto forte, a partire dall’idea che le unioni miste fra soldati italiani e donne indigene potessero inquinare il ceppo italiota. Di fatto venne introdotto l’apartheid  con molto anticipo  rispetto al Sudafrica e la discriminazione si esercitò prima nei confronti dei “negri”, poi dei meticci e infine degli ebrei. Il paradigma era quello della “emulsione impossibile”, da cui il titolo del saggio di Terzulli: l’olio delle altre razze non può miscelarsi con l’acqua pura della stirpe italica e, derivandone un composto torbido, è necessario un processo elettrolitico per attuare una separazione definitiva. Si avviava così un processo di “disebraizzazione” volto a cancellare qualunque traccia degli ebrei dal territorio italiano. In Puglia i provvedimenti potevano colpire una donna ebrea di nazionalità greca, licenziata da una banca di Bari come un ufficiale dell’esercito di Lecce, fascista e decorato al valor militare, espulso dalle forze armate in quanto ebreo.
           Anche nella provincia jonica zelo antiebraico e ortodossia fascista finirono per coincidere, avvolgendo in un’unica nuvola ideologica l’intellighenzia cittadina. A discapito della ridottissima presenza ebraica e con eventuale risparmio di senso di colpa (secondo il censimento del ’38 gli ebrei di Taranto erano solo 26) la campagna persecutoria, facile e redditizia, fu sviluppata a tutti i livelli, a partire dal più importante periodico locale, “La Voce del Popolo”: “Gli Ebrei non possono appartenere alla razza italiana” (Antonio Trotta, 20 agosto 1938); “L’Italia, più di ogni altra, sente la necessità essenziale di sradicare questa funesta piaga” (Gennaro Capano, 10 settembre). La “guerra santa” - un tonico a poco prezzo per il bolso fascismo locale e un allettante viatico per l’autopromozione delle nuove leve - fu condotta anche dal celebre liceo classico “Archita” sotto la guida del fascistissimo preside Luca Claudio: fra i “Quaderni” di propaganda fascista spiccava anche un opuscolo antisemita, Concetto scientifico di razza, stampato nel 1940 dalla Tipografia Arcivescovile di Taranto, all’interno del quale si può leggere:”La razza va difesa. Noi non vogliamo bastardi”. Come scrive Terzulli, Taranto rappresentò una “cartolina del Regime” con l’integrale sviluppo di quei temi in agenda: qui, infatti, fu avvertito l’ “orgoglio imperiale” di una città militarizzata, statale per antonomasia, “porosa” e permeabile a ogni modello di sviluppo eterodiretto, divenuta avamposto sui mari e vetrina della flotta, a partire dalla proclamazione dell’Impero. La propaganda antisemita,  un’alchimia tossica di vaghi pregiudizi e reiterate istigazioni all’odio, con una facile mobilitazione di improvvisati specialisti in razzismo ( storici, archeologi e folkloristi pontificanti nella Lega Navale o nella Società “Dante Alighieri”) era anche una occasione insperata per restituire credibilità a un Fascio locale sempre rissoso e spesso commissariato. L’antisemitismo si rivelò subito “un mito aggregatore di tutto quello che il fascismo condannava” con conseguente razzizzazione del nemico politico (antifascista).
            Allontanati dalla città i pochi ebrei e scomparso, grazie al piccone del Duce nel ’34, l’ultimo toponimo del vicoletto Giuda, non rimaneva che dichiarare guerra alla storia, disebreizzando anche il passato con una rivisitazione retroattiva e malevola dell’antica presenza dei giudei in terra jonica (11). Del resto la “bonifica” doveva esercitarsi in particolare contro l’ebreo “invisibile”,  il “circonciso dentro”, quella ebraicità nascosta che alligna come parassita nel corpo sano della Nazione. Non si trattava comunque di un’adesione artificiosa: nello zelo scolastico “c’era qualcosa di volontario, di spontaneo, un’adesione intima e non indotta dall’esterno di alcuni dirigenti e docenti” e una sorta di invasamento era riscontrabile anche fra gli universitari in camicia nera, quei “gufini” che a Taranto potevano coniugare il loro antiebraismo con la doppia appartenenza alla Fuci, la federazione degli universitari cattolici, anche per una certa ambiguità caratterizzante le posizioni della Chiesa locale. I giovani intellettuali jonici mostravano di conoscere le diverse teorie razziste in circolazione, privilegiando come nuova antropologia di regime la “scuola” di Nicola Pende, clinico medico di Noicattaro, nominato nel 1937 presidente della sezione di eugenica del Comitato medico del Cnr e firmatario del Manifesto della razza (12).
           Il 2 dicembre 1938 il federale di Taranto chiamò a rapporto tutti i gerarchi per parlare della lotta contro gli ebrei “confermando che dovrà essere combattuta ogni forma di pietismo”. Si diffondeva intanto il pamphlet di Telesio Interlandi Contra Judaeos e il volume curato da Paolo Orano, Inchiesta sulla razza che “divenne il testo di riferimento per tutti i razzisti antiebraici nostrani”. Faceva la sua parte anche l’antigiudaismo di matrice cattolica con il canonico grottagliese don Giuseppe Petraroli, che denunciava la pericolosità di un sionismo messianico di “carattere massonico-ebraico-bolscevico”. Secondo Terzulli è nel saggio  di padre Primaldo Coco, Gli ebrei: popolo errante, che si attua la saldatura tra l’antisemitismo fascista e il tradizionale antigiudaismo cattolico (13). L’ultimo capitolo del libro, dedicato all’istituzione scolastica, è quello in cui maggiormente si dispiega il volume di fuoco della macchina propagandistica, un dispositivo reticolare del coinvolgimento con agenti iperattivi come il dirigente della scuola elementare “Virgilio”, Angelo Iurlaro, e l’ispettrice scolastica Maria Luigia Quintieri. Alla caduta del fascismo nessun operatore scolastico incappò in pesanti sanzioni epurative. Docenti dell’ “Archita” hanno ricordato come, all’indomani dell’Armistizio, ci volle qualche giorno per strappare materialmente le pubblicazioni compromettenti prima che arrivasseo gli inglesi (14).
           Con un libro come questo Franco Terzulli ha piantato il piccolo paletto di cui lo storico dispone per sabotare la fabbrica della dimenticanza organizzata, per arginare la nostra facilità nel rimuovere, glissare, evitare di fare i conti: cinquantamila italiani ebrei consegnati a Hitler, centinaia di migliaia di soldati italiani mandati a morire per i campi di Europa, decine di migliaia di sloveni, etiopi, greci ammazzati in casa loro. Una spia dell’Ovra in ogni caseggiato e oppositori in galera, oppure braccati e uccisi, certamente non mandati “in vacanza” come qualcuno ha dichiarato incautamente. Lo stesso orrore per le foibe, tombe di migliaia di italiani innocenti, produce falsa coscienza se si omette di ricordare che senza il fascismo, l’invasione della Slovenia, le atrocità contro i civili, quella orribile rappresaglia non ci sarebbe mai stata. Gli “italiani brava gente”, invasori con obiettivi dichiarati di supremazia etnica, hanno sempre evitato accuratamente di guardarsi nel fondo dello specchio nero. Per questo il “rimosso” ritorna,  si risveglia quel razzismo che “giace in fondo agli animi come un’infezione latente” (Primo Levi) e tocca allo storico riprendere l’eterno lavoro di Sisifo.


NOTE

1)    “S’affaccia alla ribalta una piccola cerchia di storici della città, interessati soprattutto al passaggio tra Otto e Novecento. La piccola ‘scuola’ esordisce due o tre anni fa con un libro di Roberto Nistri, Cafoni, arsenalotti e galantuomini, sulla formazione della classe operaia tarantina attorno all’industria bellica del periodo post-unitario. Un libro ben fatto, che finisce con lo stimolare una pubblicistica di memorie, alcune interessanti, altre meno, ma in ogni caso un segno di movimento rispetto al passato. Una buona sorpresa. Ecco per esempio i saggi di Nistri, di Piero Massafra, di Piero Mandrillo, di Alessandro Di Stasi, riuniti in un libro pubblicato con i contributi del Centro Siderurgico, del Comune e della Regione: La città al Borgo - Taranto tra ‘800 e ‘900, la prima rievocazione organica di quel periodo, la nascita dell’Arsenale, l’apertura del Canale navigabile, le scoperte archeologiche di Luigi Viola, le prime lotte operaie”. Purtroppo, quando venticinque anni dopo l’editore Mandese ha coraggiosamente ripreso lo sviluppo di quella collana, proponendo un’opera monumentale in due tomi, Taranto dagli ulivi agli altiforni, questa edizione (un unicum nel suo genere) ha ricevuto più attenzione a Bari, nel quadro di una giornata di studi per la “Teca del Mediterraneo”, che non a Taranto. Come si dice, i tempi sono cambiati.

2)    La documentazione completa del progetto è reperibile nella rivista “Astolfo”, luglio-agosto 1990, pp. 31-35. Nello stesso fascicolo, cfr. V. JACOVINO, La tradizione dell’antifascismo jonico e A. ANZOINO, L’indagine storica sulla Taranto pre-italsiderina. La rivista “Astolfo”, ricca di contributi storiografici ma priva di una qualsiasi pubblicità o altro supporto, ha vissuto nel 1990 la sua gloriosa ma breve stagione, nel tentativo di raccogliere l’eredità della decaduta cooperativa culturale “il Caffè”, che a partire dal 1980, con Cafoni arsenalotti e galantuomini e L’assenteismo operaio, aveva promosso gli studi sul territorio. Il progetto del Centro di ricerche storiche venne nel 1989 recuperato dal Capogruppo del Pci alla Provincia, Tommaso Anzoino, ma non se ne fece niente; cfr. La Provincia per l’istituzione d’un Centro di ricerche storiche, in “tarantoprovincia”, maggio 1989, p.15. Il cippo posto in memoria di “Capitan Pietro” ha intanto perso la sua epigrafe.

3)    Sono dolenti note anche per l’archivistica del sindacato, la cui storia a Taranto è stata ben più rilevante e interessante di quella dei partiti politici: rimane vergognosa la vicenda di una palazzina risanata a regola d’arte nella città vecchia, destinata ad ospitare un centro studi sul lavoro nel mezzogiorno, e mai neanche inaugurata. In occasione del centenario della Cgil, la Camera del Lavoro di Taranto ha meritoriamente promosso non un’iniziativa propagandistica ma un’ampia ricerca storica: Un cammino lungo cent’anni (a cura di Roberto Nistri e Massimo Di Cesare, con prefazione di Adolfo Pepe e presentazione di Giovanni Forte, Roma, 2006). Sull’onda del successo dell’iniziativa, per la prima volta è stato progettato un archivio informatico ma, passati i primi entusiasmi, sembra che l’iniziativa si sia arenata.

4)    Cfr. G. G. CARDUCCI, Una rivista di storia municipale, in “Astolfo”, cit., p. 39. Il lavoro sul territorio presupponeva un impegnativo dibattito, sviluppatosi a partire dall’edizione einaudiana della Storia d’Italia (con interventi come quelli di Romanelli e di Villani che invitavano ad un forte recupero della microstoria come correttivo del dominante impianto storicistico, senza incappare ovviamente nella subcultura del gossip e del folklore identitario) e da seminari come quello di Ariccia: cfr. G. D’AGOSTINO - N. GALLERANO - R. MONTELEONE, Riflessioni su “storia nazionale e storia locale” , in “Italia contemporanea”, n. 133, ottobre-dicembre 1978 e Storia nazionale e storia locale a confronto. Il seminario degli Istituti, in “ Italia contemporanea”, n. 136, luglio-settembre 1979. Un fondamentale punto di riferimento per le ricerche di storia locale nel centro sud, è da considerarsi N. GALLERANO (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il sud 1943-1945, Milano 1985, al quale collaborammo con un nostro saggio sulla crisi dell’industria navalmeccanica a Taranto. Non mancarono nel 1989  contributi nell’editoria tarantina, volti a problematizzare l’oscillazione tra sintesi globale e microanalisi, da R. NISTRI, Educazione civica, storia locale, metodologia della ricerca, in “Galaesus”, n. XI a R. ANTONUCCI (a cura di), Ricerca storica ed analisi del territorio, Atti del primo seminario di studi sulla didattica della storia, con contributi di D. Bellarosa Graziano, G. Esposito, P. Massafra, A. Mignogna, F. Terzulli.

5)    Il catalogo “Siam liberi in fine…” Fonti documentarie sulla nascita delle Repubbliche democratiche del 1799 a Taranto e nel suo territorio è stato curato, per l’Archivio di Stato di Taranto, da Maria Alfonzetti, Cosma Chirico, Ornella Sapio e altri. Il Quaderno del Centro Calamandrei L’albero della libertà a Taranto nella rivoluzione napoletana del 1799, con testi di Girolamo Addeo, Vittorio De Marco, Piero Massafra, Roberto Nistri, Ornella Sapio, è stato curato per le Edizioni Archita da Roberto Cofano e Carlo Petrone. Il Quaderno dell’Ufficio Studi e Programmazione del Provveditorato agli studi di Taranto Più tiranno alcun non v’ha… Le rivoluzioni del 1799 nel territorio di Taranto è stato curato da Francesco Terzulli (con la collaborazione della dottoressa Elisabetta Rizzo). Sono raccolti i testi di Antonio De Francesco, Vittorio Zacchino, Vittorio De Marco, Alfredo Anzoino, Domenico Blasi, Rosario Quaranta, Orazio Santoro, Alberto Carducci, Roberto Nistri.

6)    Cfr. Breve guida alla Mostra documentaria La Repubblica napoletana del 1799, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - Biblioteca Nazionale di Napoli, Rionero in Vulture (Pz), 1992, p.10. Come è noto, su  questa come su altre tematiche cruciali della storia nazionale, non si può ancora parlare di memoria condivisa. Il revisionismo più fegatoso e malintenzionato, in occasione delle celebrazioni, produsse una copiosa pubblicistica:cfr. R. GUARINI, La rivoluzione napoletana? Non c’è mai stata, in “Panorama”, 14 gennaio 1999 (l’autore non fa alcuna menzione della spietata reazione guidata dal cardinale Ruffo, forse convinto che non ci sia stata neanche quella); si veda anche l’anonimo 1799, l’anno terribile visto dalla parte degli sconfitti, in “Il Foglio”, 21 luglio 1999 (ci si accanisce contro la “ storiografia ufficiale di stampo liberal-marxista prima e liberal- progressista poi”). Non mancarono quanti inalberarono cartelli con la scritta “giacobini assassini” davanti al San Carlo: una tipica forma di autolesionismo antipartenopeo e anti-italiano, alla quale replicò A. ROVERI, Ultime notizie dal revisionismo: era tutta colpa dei napoletani, in “L’Unità”, 21 gennaio 1999.

7)    Cfr. il capitolo Il serraglio degli ebrei in C. RENDINA, La vita segreta dei papi, Roma, 2008, pp.196-202; M. PIRANI, I nuovi seguaci di “ Viva Maria”, in “la Repubblica”, 25 luglio 1999, che ricorda come la Rivoluzione avesse liberato dai ghetti gli Ebrei, poi trucidati dalle truppe sanfediste. Anche a Taranto un demologo ha esaltato la religiosità popolare di bande come i “Viva Maria” aretini, massacratori di ebrei a Siena e Senigallia (R. CAVALLO, Fu un 1799 di prodigi, in “Corriere del Giorno”, 6 gennaio 2007. Certe antipatie sono state espresse dal giornale anche in altre occasioni: D. ALLEGRETTI, Il Natale dell’usuraio, in “Corriere del Giorno”, 24 dicembre 1970, è citato in A. DI NOLA, Antisemitismo in Italia, Firenze 1973, p. 94 e in G. CAPUTO, Il pregiudizio antisemitico in Italia, Roma, 1984, p. 95). Per quanto riguarda le antinomie dell’emancipazione ebraica nella cultura europea fra ‘800 e ‘900, cfr. il capitolo Shylock in H. MAYER, I diversi, Milano, 1978, pp. 295-434.

8)    Si vedano i suoi saggi presenti nell’opera collettiva Taranto dagli ulivi agli altiforni (a cura di Roberto Nistri, Taranto 2007): nel tomo primo Occupanti, alleati e profughi (1943-1965) e nel tomo secondo  La scuola a Taranto tra ricostruzione e accesso di massa (1944-1965); cfr. anche Archivi e storia locale in Ricerca storica ed analisi del territorio (a cura di Roberto Antonucci), Taranto 1989; Taranto 1940: La Marina Militare e lo “spirito pubblico”, in AA.VV., Bari e la Puglia negli anni della guerra 1940-1945, Bari, 1995;  AA. VV., Don Milani, il maestro (a cura di F.T.), Grottaglie 2001; Detour - Il circolo della scrittura. L’omaggio a Totò Rizzo di Roberto Nistri, in “Cenacolo”, 2007; Giuseppe Ettorre e l’ “Archita”, in “Galaesus”, XXXII, 2009; Il Liceo-Ginnasio statale “Archita” di Taranto negli anni di Luca Claudio: dal fascismo alla democrazia (1930-1955) in “Cultura § Innovazione”,  2007; I presidi e il Sessantotto nelle scuole di Taranto, in “Cultura § Innovazione”,  2009.

9)    L’impossibile emulsione. Una città al tempo delle leggi razziali, Bari, 2009.Come sconcertante  esempio di riduzionismo o di negazionismo valga la seguente trattazione in un testo di 230  pagine: “Uno degli aspetti del problema razziale è quello relativo agli ebrei. A Taranto, si viene a sapere, ce n’è una quindicina, ma si tratta di persone perfettamente integrate che non danno perciò alcuna preoccupazione (G. ACQUAVIVA, Il ventennio fascista a Taranto, Taranto 1998, pp.153-154). Innumerevoli sono ormai gli studi di Terzulli sulle persecuzioni antiebraiche, su forme e luoghi d’internamento fascista, nonché sulla presenza di ebrei e di slavi in Puglia nel Novecento: Internati ebrei a Masseria Gigante, in “Riflessioni. Umanesimo della Pietra”, Martina Franca 1990; Internati slavi ed ex fascisti, in “Riflessioni…”, 1991. Il campo di concentramento per ebrei a Gioia del Colle (agosto 1940 - gennaio 1941), Fasano 1992; Le internate di Alberobello, in AA. VV., La Puglia terra di frontiera, Bari, 1998; Fascismo e leggi razziali in Puglia (1938-43), 1999; Terra di frontiera (1943-1954), 2000; Una stella fra i trulli. Gli ebrei in Puglia durante e dopo le Leggi Razziali, Bari 2002; La casa Rossa. Un campo di concentramento ad Alberobello, Milano 2003; Elisa Springer, una memoria femminile della  Shoa, in “Galaesus”, XXX, 2006; 1986-1987: Primo Levi da salvato a sommerso, in “Galaesus”, XXXI, 2007.

10) “L’Italia varò un sistema normativo antiebraico che era il più articolato dopo quello tedesco e                  che conteneva alcune specifiche norme (ad esempio quelle di inizio settembre decretanti l’espulsione degli stranieri ebrei dal paese) maggiormente persecutorie di quelle vigenti in      quel momento in Germania”; M. SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, Torino, 2007, p.156.

11) Il 10 settembre 1938, nell’editoriale I giudei a Taranto, il gufino Giovanni Acquaviva diede corpo per primo all’antiebraismo “a ritroso”, seguito a ruota da padre Francesco Ruggieri, mussoliniano di ferro, con il saggio Gli ebrei a Taranto nell’epoca pagana e in quella cristiana e da Giuseppina Summo, che presentava l’espulsione degli ebrei dall’Italia meridionale come “l’affermazione dei valori morali e storici della razza ariana che…aveva dato prove non dubbie della sua avversione contro i rappresentanti del popolo deicida”.

12) Nicola Pende tenne a Taranto, il 22 aprile 1939, una conferenza sulla Politica fascista della razza agli ufficiali dell’Ammiragliato. Nel maggio del 1940, in un altro discorso tenuto a Taranto, egli dichiarò: “è lo spirito ebraico che può nuocere allo spirito della nostra razza; anche pochi semiti possono inquinare la vita di tutta una nazione”. Al firmatario del Manifesto della razza vennero risparmiati i rigori dell’epurazione, anzi “acute” indagini appurarono che quel truce Manifesto non lo aveva firmato nessuno! Pende tornò ad insegnare all’Università grazie anche all’appoggio di alti prelati, come quelli che nel 1950 certificarono la miracolosa “trasudazione” del “Cristo”, cioè una macchia su una parete di casa Pende, “ritoccata” come ammise lo stesso dottore. Un altro scienziato ben accolto nei salotti e nelle parrocchie tarantine (grande organizzatore nel ’48 dei Comitati Civici) era il “genetista” Luigi Gedda,  fattosi conoscere a Taranto nella seconda metà degli anni ’30, quando sosteneva la legislazione fascista contro il meticciato. Nel dopoguerra si legò agli ambienti dell’antropologia “razziale” nord-americana e a campioni della medicina ex nazista come Otmar von Verschuer, il “maestro” di Mengele.

13) “…il Duce, facendo eco al sentimento unanime dei popoli civili, ha voluto epurare l’Italia nostra dalle influenze malefiche di questa gente, su cui pesa ancora, dopo millenni, la riprovazione del Cristo” , in “Voce del Popolo”, 8 ottobre 1938. Il 26 novembre il gufino Acquaviva, in Internazionale ebraica sulla “Voce del Popolo”, illustrava il falso documento Protocolli dei “savi anziani” di Sion per giustificare i provvedimenti “opportunamente presi nei riguardi dei Giudei”. In fondo le leggi razziali si presentavano con uno strano alone di familiarità, di poco differenti da quelle che la Chiesa stessa aveva applicato: il gerarca Farinacci aveva buon gioco nell’evidenziare tali affinità e, del resto, la Chiesa non propose mai l’abrogazione di tali leggi, neanche dopo la caduta di Mussolini; cfr. D.I. KERTZER, I papi contro gli ebrei. Il ruolo del Vaticano nell’ascesa dell’antisemitismo moderno, Milano 2002, pp. 279-307. Cfr. anche il capitolo Santa sede e opinione pubblica cattolica di fronte all’antisemitismo e alle legislazioni razziali in G. MICCOLI, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano 2000, nonché il capitolo Gli atteggiamenti cattolici verso gli ebrei prima dell’Olocausto in M. PHAYER, Il papa e il diavolo, Roma 2008. Il cattolicesimo esoterico di Erich Peterson portava addirittura ad imputare il mancato avvento del Regno al cocciuto rifiuto degli Ebrei di convertirsi in Cristo.

14) Cfr. F. TERZULLI, La scuola a Taranto tra ricostruzione e accesso di massa, cit., pp. 55-56. Nella sua ricerca Terzulli, in linea con la critica di Emilio Gentile al banalizzante modello interpretativo della “dittatura da operetta” (“partito della pagnotta”, secondo la definizione dell’Arcivescovo di Taranto Guglielmo Motolese) funzionale alla rimozione del totalitarismo e all’autoassoluzione delle ex camicie nere, ha posto in evidenza la serietà tremenda di una strategia di invenzione-costruzione del “nemico” inquinatore. L’agente impuro risulta minaccioso per una comunità idealizzata come pura, che  conseguentemente ricorre a  dispositivi  di bonifica e disinfestazione. Il fascista si presenta sempre come “ uomo delle pulizie”: parafrasando Marinetti, “Shoa, sola igiene del mondo”.

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