giovedì 21 febbraio 2013

La Tarentinità: quell’identità residuale raccontata da Roberto Nistri


La Tarentinità: quell’identità residuale raccontata da Roberto Nistri

Recensione di
Gaetano De Monte

Si chiama “Tarentinità: quell’identità residuale”, e sarà presentato il 22 febbraio presso l’archeotower occupata, in via Venezia, a Taranto, il saggio con cui Roberto Nistri, storico, prende in considerazione gli eventi storici che hanno segnato, nel tempo, la città di Taranto e che hanno contribuito a formarne l’identità collettiva.  La città dei due mari, la cui storia, non è mai “stata monocentrica, è sempre transitata da bipolarità orgogliosamente enfatizzata a una dualità malvissuta”, scrive Nistri nel libro, dove assumono, in grande rilievo, l’analisi dei due momenti storici considerati fortemente rilevanti nella formazione dell’identità socio-culturale tarantina: l’installazione dell’arsenale della marina militare ai primi del Novecento e del quarto siderurgico, a metà del secolo, eventi che hanno segnato Taranto, trasformandola da piccola provincia in sede militare di importanza strategica,  e poi addirittura in quella di capitale industriale del mezzogiorno. Quando divenne il caso più eclatante di rimodellamento del tessuto sociale e delle funzioni urbane alle esigenze dell’insediamento produttivo, e allo stesso tempo, la città proletaria, una città operaia che dal mutualismo all’organizzazione camerale, costituì l’anima forte di un ambiente e di un popolo che era sempre stato, e sempre sarà, poi, da allora, invece, incline all’indifferenza. Che promosse forti momenti di cittadinanza attiva, quella cultura operaia, infine, che pose le prime basi di una sensibilità democratica. In una città governata allora da una aristocrazia militare, dalle gerarchie ecclesiastiche e da una borghesia parassitaria, trafficanti di ori e tesori, e ben presenti soprattutto nei settori della speculazione: degli appalti, dell’edilizia, del credito, la peggiore borghesia dell’Italia meridionale; nonostante tutto dunque, nei primi anni ’50, la città operaia manteneva una sua forte, precisa identità, eleggendo anche sindaci  e parlamentari. Scrive Roberto Nistri: ” Più o meno attorno a momenti storici precisi, come la fine dell’età d’oro dell’acciaio e la conseguente svendita del siderurgico, dalla fine degli anni ’80 - inizio anni ’90 più o meno, quindi, tante saranno le identità tarantine sbiadite: come quella antifascista, baluardo della democrazia meridionale, che con Cito, invece, aveva scelto di essere governata da uno squadrista. Agli albori del 2000, in cerca di nuove spericolate identità la città sperimentava l’ebbrezza della sindachessa che a passo di danza la guidò verso uno strabiliante dissesto. Da allora poi l’identità cominciava a riuscire spontanea, la più indebitata d’Italia e la più inquinata d’Europa”. E da allora per Giancarlo De Cataldo sarà Poisonville, metafora della provincia italiana, per una copertina del settimanale il Sabato, sarà la Beirut del Sud, mentre il volto urbanistico della città cambiava, assumendo quell’aria devastata tipica dei posti senza identità, dove si è fatto piovere a casaccio cemento nel più totale disprezzo del territorio ma con grande attenzione al valore delle aree e alle conseguenti lottizzazioni. Al primo, parziale, epilogo di una storia di crimini, debiti e veleni, Cristian Raimo, nel 2007, la definirà una capitale immorale, con un buco di bilancio mostruoso, i suoi record di diossina, il suo mare guasto, perché dell’Italia è forse l’osservatorio più privilegiato, il paradigma sociale e antropologico utile a capire anche ciò che accade nel resto della penisola. Taranto, lo specchio d’Italia sarà, nell’estate 2012, per Gad Lerner. E da allora per Taranto la qualificazione criminale non sarà solo una metafora letteraria o il titolo di una docufiction di successo. Perché in trent’anni di storia, dal boss che passava la vigilia di Natale con il futuro sindaco, al boss Riva accusato di disastro ambientale, vi è il filo nero di corruzione che ha avvolto la città, distruggendo ogni regola e norma. Nel solco di un grande sociologo come Franco Cassano, quindi, che aveva considerato il primo passo di ogni autonomia di un popolo, quello che conduce a ritrovare “l’orgoglio di ciò che si è , il significato di valore di una storia e di una tradizione”, Nistri, dunque, scrive di identità, nell’era della globalizzazione trionfante, per spingere i tarentini a rivendicare la propria autonomia, la differenza, che sia lontana anni luce, però, dal localismo o dal gretto municipalismo. “Mentre la Taranto degli ori e della cultura magno greca”, racconta Roberto Nistri, “continua a vivere solo in un turismo colto e sognatore. La città delle navi, dei pescatori, della classe operaia siderurgica, e di quella degli arsenalotti, per la nazione ora è più un problema che una risorsa. A ridosso dell’ultima Rocca, dove si ergono le ciminiere ziggurat, i tarantini cercano di capire che cosa sono diventati e cosa vogliono. Sono orfani di identità”.
Probabilmente perché della loro storia non sta rimanendo più nulla.